1950. Andare a Parigi in quegli anni era, per chi abita nella provincia italiana del dopoguerra, per di più in riva a un lago - fosse anche il Maggiore - dove la quasi immobilità dell'acqua sembra contagiare la routine della gente... andare a Parigi, dicevo, era "come darsi a un mestiere, a una professione o a un corso di studi. Vivere in quella gran città voleva dire imparare, capire il mondo, fiutare il vento. L'avervi passato qualche anno e magari soltanto qualche mese, poteva dare gloria per tutta la vita anche a un tipo qualunque, solo che avesse saputo raccontare le sue gesta, immancabili, perché nessuno poteva vivere a Parigi senza capitare dentro casi e vicende degne di venir raccontate".
Il protagonista de Il cappotto di Astrakan - una voce narrante che non ha nome, un uomo sulla quarantina che manca dalla Francia - e da Parigi - da vent'anni, per via di passati burrascosi in quella terra straniera, decide di attraversare il confine e avventurarsi nella Ville Lumière. Il primo contatto con la capitale francese è l'appartamento di un'anziana signora, madame Lenormand, che non ospita in casa estranei ma sembra fare un eccezione per l'italiano, d'aspetto troppo simile al figlio Maurice, fuggito in Indocina.
E poi c'è la bella, sfuggente Valentine, che l'uomo riesce a fermare per strada con la scusa di voler imparare la lingua, dopo averla spiata dalla strada specchiarsi nuda nella sua stanza.
La relazione con Valentine permette al protagonista di scavare nei suoi ricordi e svelare segreti che lo trascinano in uno spiazzante gioco delle parti, punto di forza e chiave di lettura del romanzo.
Chi è veramente Maurice e come mai l'uomo che ora occupa la sua stanza, in compagnia del geloso e sornione gatto Domitien, si sente attratto dal suo diario?
La risposta è nascosta in un cappotto di Astrakan, che l"eroe" del romanzo indosserà per affrontare i rigori dell'inverno parigino e che sembra legare, come i fili di una ragnatela, tutti i personaggi della storia.
Un estratto:
"Se mi chiedi di un motore," cominciò con calma Ferdinando "di un piano velico, d'un tipo di fasciame piuttosto che di un altro o di vernici, posso parlare per ore, ma in fatto di donne ho imparato a non dare consigli di nessun genere. Vedi questa barca? Probabilmente non la metterò mai in acqua. Ci ho cacciato dentro tanto di quel metallo, che pesa almeno due quintali più dell'acqua che sposta. [...] Non è più una barca, è un macigno, un "corpo morto", un sasso che messo in acqua calerebbe subito a picco. Ma non importa. Per me ha incominciato il suo viaggio fin da quando ho ribattuto il primo chiodo. Continuerò ad arricchirla di "manovre" e di comodità, finirò col farla diventare magari un sottomarino, ma non la metterò mai in acqua, perché non è più una barca ma un sogno. Ebbene, così è Valentine per te. L'hai caricata di troppi pesi..."
Piero Chiara - Il Cappotto di Astrakan - Anno 1978 - 190 pagine
Collocazione: NAR.CHIA