Siamo felici della partecipazione che c'è stata e degli ospiti che sono venuti a trovarci: abbiamo iniziato con Alessandro Del Gaudio, abbiamo proseguito con il giornalista Emanuele Franzoso, siamo stati lieti di promuovere l'opera prima di Cristina Bo e, infine, abbiamo avuto l'onore di dialogare con il teologo Ermis Segatti. Grazie a tutti!
Per concludere, parleremo di poesia con Matteo Bergamaschi e, accompagnati da musica dal vivo, leggeremo alcuni brani tratti dal suo libro La grande città.
L'autore
Matteo Bergamaschi (1987) si è laureato in Filosofia presso l’Università Cattolica, e ha conseguito dottorato di ricerca in Studi Umanistici presso il medesimo ateneo. Attualmente è docente incaricato presso la Facoltà Teologica di Torino, e docente invitato presso la Pontificia Università Salesiana di Torino. È autore di raccolte poetiche, come La grande città e Come il vento e la sabbia, e di saggi, come Dire io (con C. Pallard), Benedire. I poeti (con I. Menso) e Il segno intrattabile (con D. Navarria).
Il libro
«Dio è morto!», grida il folle di Nietzsche, un grido che attraversa lancinante l’intero Novecento. «E forse anche l’uomo è morto»: eco del terribile grido. O forse no. Forse, per le vie della Grande Città - che è un po’ Roma, un po’ Gerusalemme, un po’ Babilonia, un po’ la città postmoderna – l’uomo e Dio si incontrano ancora, in modo sempre antico e sempre nuovo. Dio cammina per le vie della città degli uomini; e pare di sentire la cadenza del suo canticchiare, la sua andatura che si affianca a quella dell’amico, del compagno umano, assumendone il ritmo, la lena, i colori caldi e terrosi, e perfino gli odori che si spandono nella polvere delle vie, degli avvenimenti, che incidono, come un solco, la storia sul viso di chi è per via, sulle rughe delle sue mani. Al di là di ogni retorica! Sì, in questa città è custodita la promessa di Dio, e il Messia cammina per le vie della Grande Città dei figli degli uomini, dei figli di Dio. Dio è dunque morto? Ma non senti il rumore dei suoi passi? Proprio ora, cammina sul selciato.
I brani
[La
Sulammita ]
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Oh!, Sulammita, come sei bella,
come sei bella, Sulammita,
che radiosa danzi, e profumata di
grazia!
quanto disiai che il mio cuore riposasse
adagiato al tuo seno,
quanto disiai, Sulammita, estasiato di
vederti ancora danzare,
d’ascoltare, ancora una volta,
il tepore della musica nella tua voce,
mentre il fiato delle tue parole si
mischiasse col mio,
sì che ne discernessi il sapore!
Sulammita, Sulammita…
chi è bella infatti come la Sulammita ,
che cosa al mondo e sopra di esso
può eguagliare la bellezza della Sulammita?
Sulammita,
mi chiedo se, pellegrino per le vie di
questo mondo intricato,
ho mai ricercato qualcosa
che non fosse il tuo sguardo,
se al mondo io non abbia che cercato i
tuoi occhi
nel fondo del mio desiderio,
se il tuo sorriso non fosse quanto
cercai con altre vele,
mentre andai dicendo d’altri porti.
pure, Sulammita, Sulammita mia, mia
bella,
io cercavo un volto, un sorriso
di fronte ai quali il cuore e l’affetto
si destassero nella meraviglia!
non cercavo i tuoi occhi, Sulammita,
cercavo i miei,
cercavo i miei occhi specchiarsi nei
tuoi,
cercavo me,
me,
- ancora!
ma no!, non posso pensare che l’amore
sia tutto qui,
qualcosa in me si desta a protestare
contro tutto questo!
cos’è dunque l’amore, Sulammita?,
un accovacciarsi l’un appresso
all’altra,
in una tana di bestie,
mendicare un po’ di calore
in un buco scavato nel fango?
no, non è questo l’amore, non può essere
questo;
e se fosse tutto qui, io non ci starei,
me ne andrei dal mondo e dal suo
inganno.
perché se anche mi avvoltolassi in
quella tiepida tana,
se mi accostassi alla dolcezza di questo
casto tepore,
alla dolcezza del tuo profumo,
alla carezza silenziosa di quegli occhi
che mi sorridono
e che forse sono l’unica cosa che voglio
- non è qui.
non è qui quello che
cercavo,
mi sarei detto nella pena d’una veglia
pensosa,
in cui tu, Sulammita, non avesti potuto
voler di vegliare al mio fianco.
a lungo, Sulammita, ho vagato, insonne e
fuggiasco,
per le vie di questa Grande Città,
a lungo sono passato di sotto alla tua
finestra,
e il mio cuore ha sospirato pensando a
te, a se stesso,
pensandoti bella che riposavi pensosa
stringendo il cuscino.
ma poi, Sulammita, ho visto che al tuo
balcone si affacciava la bestia, l’affetto, la tana.
gli occhi non sono puri, perché io non
avevo capito che cos’è l’amore.
e allora lascia, Sulammita,
lascia che vada,
non piangere, Sulammita,
ma lascia che vada,
finché io non veda,
finché io non torni,
finché non abbia
incontrato l’amore.
5
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Venite, il Messia!
il Messia passa per le vie
della Grande Città!
si destavano le vie della Grande Città;
si schiudevano i vicoli e i budelli
senza nome,
perché il Messia, in quel giorno
qualunque,
il Messia passava per le vie della
Grande Città.
passava il Messia in quel dedalo senza
memoria,
pregno dell’odore di arti e mestieri,
adorno, da un capo all’altro,
dei poveri panni degli ultimi,
che, stesi, cingevano come festoni il
viottolo.
com’era bello quel Messia,
così docile, così mansueto, come il
puledro dell’asina;
com’era bello quel Messia,
–
e tutta la gente scendeva,
e usciva dalle case patinate dal tempo,
scendeva per le strade della Grande
Città
a salutare quel bel Messia,
e batteva le mani,
e ridevano, nei loro abiti semplici,
offrendogli le ore,
le opere e i giorni che lui solo poteva
serbare.
ridevano, nei panni della loro fatica,
nei loro panni sudati e dimessi,
ridevano, perché il Messia era passato
di là,
e c’era anche Rahab, la prostituta,
e gli tendevano le mani ruvide e scabre.
com’era bello quel Messia che li capiva,
e li stava a sentire,
quel Messia sorridente tra gli ultimi e
i poveri,
lui stesso ultimo e umile.
com’era bello quel Dio che si
incamminava
sui sentieri stretti e sconnessi della
Grande Città,
quelle vie di cui si vergogna la storia,
ma non il Messia!
com’era bello quel Messia fatto di carne
e di tempo!
i suoi tratti, i suoi lineamenti,
si intrecciavano con quelli dei mille
volti rugosi e umiliati,
e nel suo nome lasciava echeggiare quei
mille nomi,
nomi semplici, come il suo,
che narravano la storia dei loro
semplici avi,
le speranze e le illusioni delle genti
dei viottoli della Grande Città.
quel bel Messia raccoglieva e custodiva
nel suo mistero
i segreti di quei nomi, dei cuori
che lui solo conosceva,
li raccoglieva e li portava con sé,
riscattando le loro piccole ore,
mentre passava per le vie della Grande
Città.
oh, Grande Città, che tu non possa mai
cessare
d’innamorarti e di stupirti di questo
buon Messia!
Venite, il Messia!
il bel Messia passa per le vie della
Grande Città!
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Canterò quest’oggi
dell’amore di una donna,
sì, quest’oggi ho in cuor di cantare,
e canterò,
di come ama una donna.
canterò di una donna
che andava al pozzo,
rigando la sabbia coi suoi passi,
rigando di lacrime il suo viso.
Perché piangi, donna?
dimmi, Lia, perché piangi?
Piango perché i miei occhi
non sono belli, Signore,
piango perché il mio uomo
guarda gli occhi di Rachele;
“perché piangi, Rachele?”,
domanda Giacobbe,
– e Lia? Perché mai lo ha chiesto,
che piange sola tra le stoviglie, in
cucina,
che piange, e invoca il suo uomo?
e se il mio cuore dolente,
se il cuore della donna abbandonata
ha un diritto davanti al tuo trono,
ti griderò flebile fra queste mie
lacrime:
Alzati, Messia, vieni, e
sii Dio
anche qua,
vieni, e sii Dio
fra le stoviglie e sui
miei occhi.
e i singhiozzi le scuotono il fragile
petto,
il petto di creatura che ricerca il tuo
amore,
e un velo di lino
ne avvolge pietoso l’amaro dolore.
le disse il Nazareno:
I tuoi occhi, Lia,
io non posso mutare,
e quello sguardo
te lo darà soltanto il tuo
uomo,
e non un altro al suo
posto,
giacché al suo cuor l’ho
rimesso;
ma ora guardami, donna,
non temere, perché io sono
con te,
non smarrirti, perché sono
io il tuo Dio;
non temere, io sono il Dio
di Lia,
e dei suoi occhi,
e il mio cuore oggi ha
desiderato
che il mio sguardo
riposasse sui tuoi occhi.
rideva la donna, rideva e piangeva,
in ginocchio, e baciava i piedi del
Messia,
e il suo crine asciugava
ciò che le sue lacrime avevan mondato.
le carezzò il viso il Maestro:
Verrà un giorno, Lia,
quando si avvicinerà la
mia ora,
che sarò solo, e i miei
fuggiranno;
allora mi guarderai tu,
io cercherò i tuoi occhi,
e tu mi darai il profumo,
l’unguento di nardo di
Lia!
E ovunque diranno di me,
narreranno anche di te,
dei tuoi occhi,
e del tuo amore di donna,
che come l’incenso si
spande,
come il profumo del nardo.
[Il
Grano]
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Come sono belli i granai della Grande
Città,
ove della nera terra il frutto
raccoglie,
del sudore e dell’opera,
e dove convengono i figli e le figlie
del mio popolo.
e io mi soffermai un giorno
sulla soffitta di un granaio della
Grande Città,
mentre l’intenta pietà d’un officio
laborioso
celebrava di sotto
la pace e la franca esistenza dei figli
dell’uomo;
mi soffermai un giorno
accanto al rosone di quel tempio
pietoso,
e stesi il mio sguardo sui campi del
grano.
e quel giorno disiai, mio Signore,
che io fossi come il grano;
quel giorno disiai
che come le spighe del grano
fossero tutti gli uomini.
com’è bello, Signore,
il pane, frutto di tanta fatica,
di tante mani,
che su questi colli dorati,
impasta le opere e i giorni dei figli
dell’uomo,
e nella sua fibra s’intreccia
il nudo e concreto abitare dei figli del
mio popolo;
e l’eco del canto dei campi,
della mietitura e degli uccelli del
cielo,
mi sussurra la voce tua dolce:
E il pane, sono Io;
e io rimembro, nel santuario dell’opera
delle mani dell’uomo,
e guardo i miei intenti fratelli,
il cielo, i tuoi campi,
le vie della Grande Città,
e odo ancora la tua parola, che dice:
Tutto ti parla di Me!
il mio calice trabocca,
–m’allora il mio cuore
irretisce un altro pensiero,
e penso all’ultimo covone,
a come sarebbe bello
se via mai non fosse portato,
se questa vendemmia
durasse in eterno,
e non udissimo mai
i rintocchi del vespro,
quanto torneranno i fantasmi,
le angustie notturne, che il mattino
dissipa;
come sarebbe bello se, per quei campi,
i padri non posassero mai dalle spalle i
loro bambini,
e non si spegnesse mai il riso alla
donna
rivolto al bambino, che annoda
il suo segreto e quello del padre,
intanto che stringe la mano al suo uomo,
vuole sentirne la carne,
la loro unica carne,
in cui hai inciso la tua promessa;
come vorrei che il sorriso tingesse
sempre le gote
alla vergine, quando vede quel bimbo,
e sulla veste si passa le mani,
quando nessuno la vede,
sul pudico grembo, mentre il disio
un gesto volge allo sposo promesso;
un dì gli mormorerà:
Sei il babbo della nostra
creatura;
e lui, al proprio petto,
poserà il capo di lei,
che ora cinge regale
il fazzoletto della mietitura.
mi innamora, Signore, questa visione di
gioia e di pace,
e io penso che dunque più bello è il
sogno,
e forse sarà un giorno così
nella Gerusalemme del cielo,
quando ti vedremo su quei campi
e canteremo insieme
del mietitore queste nostre canzoni;
pure, si storna il mio cuore,
e ritorna alle crepe nel muro,
e penso che forse un segreto dell’opera
custodiscono più grande e più antico.
forse più belle sono le crepe nel muro
delle loro case, cui faranno ritorno,
le dimore in cui le cose non andranno
bene,
– ma ecco che i figli e le figlie del
mio popolo
riannoderanno il nodo del tempo,
ed ecco che quella mietitura non sarà
passata invano;
questa è l’opera con cui intessono i
campi ed il Regno
i figli e le figlie del tuo popolo!